Il fuggitivo

Il fuggitivo, 2013 – disegno, grafite e acrilico su MDF, 333 elementi, 13 x 9 x 2 cm cad.

Con una sequenza di fotogrammi tratti da un precedente video e “tradotti” a grafite su tavola, Di Vaia esegue una sorta di odissea domestica dove luce e ombra emergono, come su un dagherrotipo, per opacità e lucentezza del medium che si è sostituito a quello meccanico. Tra apparizione e scomparsa, l’artista inquadra “in soggettiva” passaggi subliminali della sua peripezia subentrando una volta di più all’obiettivo e mettendone in crisi le prerogative di oggettività e di inappellabile aderenza al vero.

L’intervento manuale sulla matrice video, nel momento in cui, ricalcandola, “rinnega” l’opera originaria, sposta l’interrogativo sul dogma della verosimiglianza in arte e dunque sull’ambiguità che presiede ogni forma di riproduzione e di mimesi della realtà. 

Il fuggitivo, che è il titolo dato da Di Vaia a questo lavoro, insegue in definitiva l’irrisolto quesito che rimanda a sua volta alla teoria di Platone secondo cui l’arte, attraverso la mediazione dell’idea di cui la natura è il riflesso, diventa a tutti gli effetti la copia di una copia. 

La fuga di Di Vaia si risolve così nella metafora di questo irraggiungibile bersaglio, nella messinscena di come, sconfessando i canoni di comportamento del processo artistico, per l’artista nessun “esito” sarà da raccogliere e conquistare. Quando il percorso fatto non costituisca di per sé un traguardo, attestandosi come unica certezza della meno garantita tra le avventure dello spirito.

Giuliano Serafini (dal testo critico della mostra Senza, Galleria C2 Contemporanea – Firenze)

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[…] Il fuggitivo (2013), opera costituita da numerosissime tavolette di colore scuro parzialmente lavorate a grafite, propone attraverso inedite suggestioni visive una riflessione sulla circolarità dello sguardo e sul disegno che si fa strumento di un’incessante riscrittura di processi cognitivi e mnemonici. Una riflessione rafforzata qui dalla scelta di allestire i vari segmenti che compongono l’opera seguendo una scansione serrata e continua sulle pareti della sala, quasi a rievocare l’immagine del nastro di una pellicola che si srotola davanti agli occhi dello spettatore, per poi riavvolgersi su se stesso. L’opera nasce difatti, al pari della serie Angeli, da una “matrice” video, frammentata e fissata attraverso il disegno fotogramma dopo fotogramma, dove le immagini si rivelano in maniera quasi impercettibile attraverso un gioco di “dissolvenze” basato sul lieve contrasto tra la lucentezza della grafite e l’opacità del supporto. Si tratta di istantanee che tentano di catturare e riscrivere momenti successivi di una peregrinazione dell’artista nel proprio ambiente domestico – tema ricorrente nella ricerca di Di Vaia –, affidando all’insistente ma al contempo ineffabile tratto grafico la volontà di comunicare la dimensione temporale della memoria e delle sue possibili distorsioni. […]

Alessandra Acocella (dal testo critico della mostra Vicolo cieco, Galleria Lato – Prato)